venerdì 7 ottobre 2011

Di mele e di adozioni



Si parla spesso di fallimenti adottivi, raramente dei successi. Sarà forse per la strategia messa in atto dagli operatori di scandagliare, anche con un pizzico di spietato realismo, le vere motivazioni che spingono un uomo e una donna a volersi mettere in viaggio sul sentiero dell'adozione, ma a tutti coloro che decidono di fare domanda di "disponibilità all'accoglienza" di un bambino biologicamente generato da altri viene costantemente riproposto uno sfondo di fatiche, fallimenti, problemi, possibili crolli.


Tutto giusto, per carità, ma come sempre la luna ha due facce. Come la mela. E tra i tanti  dolorosi insuccessi, oggi vogliamo raccontare una storia dal sapore completamente differente.


E' la storia di Steve Jobs, il padre della Apple, morto l'altroieri per un tumore al pancreas. Il "visionario" è un figlio adottivo. Lo ha raccontato lui stesso, agli studenti di Stanford: "La mia madre biologica era laureanda ma ragazza-madre, decise perciò di darmi in adozione. Desiderava ardentemente che io fossi adottato da laureati, così tutto fu approntato affinché ciò avvenisse alla mia nascita da parte di un avvocato e di sua moglie. All'ultimo minuto, appena nato, questi ultimi decisero che avrebbero preferito una femminuccia. Così quelli che poi sarebbero diventati i miei veri genitori, che allora si trovavano in una lista d'attesa per l'adozione, furono chiamati nel bel mezzo della notte e venne chiesto loro: “Abbiamo 

un bimbo, un maschietto, non previsto; volete adottarlo?”. Risposero: “Certamente”. La mia 
madre biologica  venne a sapere successivamente che mia mamma non aveva mai ottenuto la 
laurea e che mio padre non si era mai diplomato: per questo si rifiutò di firmare i documenti 
definitivi per l'adozione. Tornò sulla sua decisione solo qualche mese dopo, quando i miei genitori adottivi le promisero che un giorno sarei andato all'università".


Senza quei veri genitori, Steve non sarebbe mai diventato il "guru di Cupertino", e il mondo non avrebbe conosciuto l'iPod, l'iPhone o l'iPad. E, soprattutto, non avrebbe mai ascoltato il messaggio folle e irrazionale di un uomo diventato per molti un'icona.


Il segreto del successo sono due genitori che hanno amato senza riserva alcuna quel bambino rifiutato da altri, lo hanno cresciuto coltivando i suoi sogni, non gli hanno nascosto la sua storia e nel raccontargliela gli hanno permesso di conoscere le sue origini senza che queste lo intrappolassero nel passato, nei suoi troppi rimpianti e nei suoi dolorosi rancori.


Scrivo queste povere righe seduto davanti a un Mac. Con l'idea un po' irrispettosa che ogni bimbo adottato e ogni genitore adottivo sono portatori di quel seme folle e geniale che si chiama "sogno". Sono persone che hanno anticipato il consiglio che Steve ha voluto dare agli studenti di Stanford, nel giorno della loro laurea: "Non rimanete intrappolati nei dogmi, che vi porteranno a vivere secondo il pensiero di altre persone". Ogni famiglia che ha piantato radici nell'adozione conosce molto bene questa verità. Che si vive solo rimanendo affamati di sogni e passioni e folli d'amore e di visioni.

domenica 18 settembre 2011

Di diritti e di emozioni

Quando si pizzicano le corde dei sentimenti è difficile seguire uno spartito armonico. Il rischio di far vibrare la nota sbagliata è reale e concreto. Eppure non si può far passare sotto silenzio le parole, seppur spinte da umana sofferenza, pronunciate da Sabrina Ferilli sul tema dell'adozione. In buona sostanza l'attrice dice: voglio adottare un figlio. E nel dirlo sventola una bandiera che non ci piace: quella del diritto a essere madre. Quella bandiera non è che non ci convinca perché non sia sacrosanta, ma perché non può essere piantata nella terra dell'adozione. Dove l'unico e autentico diritto è quello dei bambini. Loro sì hanno il diritto ad avere dei genitori. Non viceversa. 
Più volte si è cercato di dare una definizione, in chiave emotiva, dell'adozione. L'incontro di due bisogni. O, forse meglio, l'incontro di due amori, di due desideri, di due sogni. Oppure, ancora, l'incontro di un desiderio che è diritto con quello di un desiderio che è sogno e speranza. Se spostiamo il dibattito sull'adozione verso un discorso di diritti delle donne a essere madri o di uomini a diventare padri perdiamo completamente di vista il reale significato dell'adozione: che è l'abbraccio di un bambino senza genitori con la sua mamma e con il suo papà.

lunedì 27 giugno 2011

Lasciata!

Piccola vittima, fai bene ad arrabbiarti con il mondo che ti ha lasciata sola sotto un ponte.
Piccola bimba, chi ti ha trovato ha deciso di chiamarti con un nome che significa "portata dal vento" perché tirava forte il vento quando ti ha vista sopra quelle lenzuola di rispetto.
…così mi sei apparsa…
Mi si spezza il cuore pensando alle mani che ti hanno appoggiato,
lasciandoti un sacchetto azzurro con latte artificiale come ultimo gesto di
un amore ormai lontano ma che durerà in eterno.
Calde lacrime, sofferenza e tristezza per il tuo abbandono.
Ma la tua protesta, la tua grinta, mi destano da questo torpore.
E’ da quando ho visto la tua foto che sei nei miei pensieri quotidianamente e oggi questo mio scritto vuole in realtà essere un augurio speciale per te.
Che il vento ti porti presto nelle braccia dei tuoi genitori…
Che le tue proteste siano ascoltate, esaudite e calmate…
Che tu venga amata incondizionatamente come ogni bimbo deve essere amato.
Avrai questa fortuna…ne sono sicura!

martedì 7 giugno 2011

Bambine

Bambine buone come il pane: non sprecatele!
Bambine sorridenti come uccelli dentro al nido: non disturbatele!
Bambine leggere come l'aria che soffia su un aquilone: fatele volare!
Bambine felici come il sole: non copritele!
Bambine limpide come l'acqua che scorre nel ruscello: non inquinatele!
Bambine tristi come mangimi per serpenti: lasciatele pensare!
Bambine come fiori in un campo: non calpestatele!
Bambine come un temporale d'inverno: non spegnete le loro voci!
(Lili, 11 anni, Cina)


da "Italiani per esempio" di Giuseppe Caliceti

Bambini

Bambini agitati come il mare in tempesta: non calmateli!
Bambini coraggiosi come soldati in una guerra: non uccideteli!
Bambini maleducati come scimmie che rubano le banane ad altre scimmie: insegnate loro l'educazione!
Bambini solitari come un predatore senza amici: smettetela di lanciare missili!
Bambini avventurosi come l'acqua che si sta avventurando giù da una cascata e fa PAAAAAA!!!
Bambini concentrati come un arciere alle Olimpiadi, se sbaglia perde, se fa centro vince una medaglia d'oro: non distraeteli! (Kumari, 10 anni, Pakistan)

da "Italiani per esempio" di Giuseppe Caliceti

lunedì 9 maggio 2011

I bambini che non sognano più

Bengasi - Ibrahim è indaffarato con una scatola di mattoncini Lego, "sto costruendo un mitra", spiega. Hafed gioca a nascondersi sdraiato per terra, "si fa così", suggerisce, "lho imparato in battaglia". Nawara è alle prese con un disegno complicato, "questi sono razzi grad, questa invece è una mitragliatrice". Non più sogni da bambini. Guerra e soltanto guerra. Non importa che sia un gioco, un lavoretto, una poesia, un disegno... La guerra è sempre sullo sfondo. "Ci abbiamo provato in mille modi ma non c'è verso di cambiare argomento", dice Roz, giovane e paziente volontaria di questa non-scuola che si chiama El Mojahed, a est di Bengasi. A dire il vero El Mojahed, costruita dagli italiani durante l'occupazione, sarebbe una scuola elementare vera, se funzionasse. Ma dal 17 febbraio, il giorno in cui partì il motore della rivoluzione, le lezioni sono sospese. "Prima la vittoria poi il resto" è d'accordo Ali Nagaw Bayon, una maestra che dedica le sue mattine ai più piccoli, tre-quattro anni.
Qui oggi nessuno è studente. Le classi di El Mojahed sono piuttosto un parco giochi per bambini fra i 3 e i 14 anni. I pastelli colorati inviati dall'Unicef vanno a ruba, i fogli per disegnare scarseggiano, i giocattoli raccolti dalle famiglie della città passano di mano in mano. Insegnanti disoccupate e ragazze del volontariato locale danno il loro contributo alla rivoluzione prendendosi cura di qualsiasi bambino arrivi. Minimo duecento ogni giorno. "Così almeno non giocano per strada, dove gira un sacco di gente armata" considera Al Nagaw. "Almeno per qualche ora non stanno nelle loro case con la televisione che mostra scene di combattimento". La vita di questi bambini scorrea lenta fino al 17 febbraio. Poi carri armati delle truppe governative sono arrivati in città, per cinque giorni Bengasi è stata un campo di battaglia che nessun bimbo potrà mai dimenticare. Il rumore delle bombe, le mitragliatrici, i razzi, le case in fiamme, i feriti: ciascuno di loro ricorda ogni dettaglio.
Bastano una matita colorata e un pezzo di carta per capire che la memoria corre in automatico su quei ricordo. Così ecco un uomo per terra, nel sangue, i carri armati dei ribelli che avanzano in direzione delle bandiere verdi di Gheddafi. "Siete come ratti" disse il raìs in una delle sue prime apparizioni televisive dopo la rivolta in Cirenaica. Per questo Saad, 12 anni, ha disegnato Gheddafi con la faccia da topo. Musafa, 10 anni, lo disegna con le corna del diavolo.
Tutti, anche i più piccoli, sanno più o meno tracciare il profilo del colonnello, i suoi capelli ricci, il suo cappello. "L'ho imparato da mio fratello maggiore" confessa Hedaia, 10 anni. E dai fratelli maggiori, dalle mamme e dai papà, hanno imparato che il verde è "un colore cattivo" perché la bandiera di Gheddafi è verde, sanno che adesso la "Libiache non è più in prigione", come dice la piccola Doaa, ha i colori rosso, nero e verde, con la mezza luna e la stella in centro.
Rowieda Abdallaw Allkmati è un'insegnante, volontaria della scuola. E' sicura che "questi figli della Libiace la faranno anche se hanno visto cose orribili". Poi prova a chiedere a una bimbetta di disegnare un fiore. Lei lo disegna, lo colora, e lo guarda perplessa mentre lo consegna. Manca qualcosa. Si riprende il foglio e aggiunge il colore rosso. "Sul fiore c'è sangue", dice.
Fonte: Corriere.it

giovedì 21 aprile 2011

Il pulcino di gesso

Dall'uovo di Pasqua

è uscito un pulcino

di gesso arancione

col becco turchino.

Ha detto: "Vado,

mi metto in viaggio

e porto a tutti

un grande messaggio".

E volteggiando

di qua e di là

attraversando

paesi e città

ha scritto sui muri,

nel cielo e per terra:

"Viva la pace,

abbasso la guerra".



Gianni Rodari

venerdì 8 aprile 2011

Quasi un sogno...

Esistono ancora gli idioti. Sputi e insulti su una cestista a Como. L'episodio è di ieri sera, nel corso di Comense-Geas Sesto San Giovanni, gara di cartello per la serie A femminile di basket. Durante l'incontro un gruppo di tifosi della squadra locale ha preso di mira Abiola Wabara, 29enne ragazza di colore che indossa anche la maglia azzurra. Ogni volta che il pallone era nelle sue mani, dagli spalti arrivavano fischi ululati. Più volte il presidente della Geas, Mario Mazzoleni, ha chiesto all'arbitro di sospendere la partita, come è previsto dal regolamento, ma la gara è proseguita fino al termine. Alla fine del match, quando le squadre stavano tornando negli spogliatoi, il gruppo di tifosi ha avvicinato l'ala bersagliandola con una raffica di sputi. Solo grazie all'intervento dei dirigenti delle due squadre la situazione non è sfociata in qualcosa di peggio. “Sono dispiaciuta per quanto accaduto, ma sono una sportiva e penso a giocare. Quanto è successo appartiene già al passato”, si limita a dire Wabara. “E' un peccato che una bella partita sia rovinata dalla presenza di gente così becera, che con lo sport non c'entra nulla. La partita andava sospesa. Non farlo è stato un errore”, ribadisce il presidente della squadra milanese. Per il momento l'episodio è stato segnalato alla giustizia sportiva, ma presto il fascicolo potrebbe finire sulla scrivania della magistratura ordinaria. Nel frattempo sono in corso accertamenti da parte delle forze dell'ordine per individuare il gruppo composto da 15 persone che ha pesantemente insultato la giocatrice e ha poi cercato anche lo scontro fisico. A due giorni dal concerto "Almost a lullaby" dobbiamo ancora fare i conti con la stupidità di alcune persone alle quali ci rivolgiamo con un monito: non venite domani sera al Sociale a Como, i vostri stupidi fischi e i vostri ignobili sputi potrebbero essere coperti dai nostri applausi. Colorati.

lunedì 28 marzo 2011

Quasi un sogno?

“ Siamo fatti della materia di cui sono fatti i sogni; nello spazio e nel tempo d’un sogno è racchiusa la nostra intera vita.” - William Shakespeare Sabato 9 aprile Mehala Onlus organizza a Como un concerto a favore del Burkina Faso il cui titolo “ALMOST A LULLABY… QUASI UN SOGNO” , esprime in modo molto chiaro il contenuto delle musiche e dei brani recitati che daranno vita alla serata. Tutte le fasi della nostra vita sono costellate di sogni ; sognano i bambini, gli adolescenti, gli adulti e gli anziani, e ciò che maggiormente riempie il cuore di tenerezza è scoprire che al termine della vita si riesce a recuperare i sogni del bambino o bambina che si è stati, come se, idealmente, il ciclo della vita si chiudesse , ricongiungendo l’ultima fase alla prima. Chi tenacemente si aggrappa ad una visione romantica della vita, immagina che i sogni dei bambini siano simili a ninne nanne….la trasparenza dello sguardo con cui osservano il mondo, lo stupore con il quale accolgono le novità, l’assoluta mancanza di pregiudizi con la quale affrontano le relazioni tra esseri umani, mi hanno sempre fatto pensare che i sogni dei bambini non possono che essere belli, rassicuranti, colorati e sonori. Ma ieri, mentre il notiziario televisivo mi trasmetteva le immagini del neonato etiope venuto al mondo su una “carretta dei mari”, circondato da disperati più prossimi alla morte che ad una vita dignitosa, nudo, con la sola protezione di due braccia materne che lo racchiudevano quasi interamente….mi sono chiesta se i sogni di quel bimbo saranno mai anche solo vagamente simili ad una ninna nanna. Quale sarà la sua sorte? In fuga dalla povertà prima ancora di venire al mondo, uscito da un ventre che non ha una patria, un luogo sicuro in cui stare; vissuto come un “problema” da chiunque lo avvicini; con il marchio dell’indesiderato impresso a fuoco sul petto; costretto a vivere nella promiscuità di chi elemosina uno status sociale; magari sempre in cammino su passerelle oscillanti tra Paesi inospitali. I suoi genitori un sogno l’hanno avuto..altrimenti non sarebbero saliti, soprattutto la madre incinta di nove mesi, su quell’imbarcazione con destinazione l’ignoto. L’hanno inseguito, perseguito e adesso sperano di averlo raggiunto quel sogno….ma per lui ce ne saranno altri di sogni? Ci saranno musiche dolci e nenie cantate da labbra che amano? O il suo destino sarà raccogliere l’eredità di un sogno che non si realizza e che distrugge dignità, speranze , appartenenza e affetti? Il nome che i suoi genitori hanno scelto per lui , tradotto dall’amarico, significa “Voluto da Dio”. Benvenuto tra noi uomini, Voluto da Dio. E che siano capaci gli uomini di volerti e di amarti…e di farti sognare quella dignità che meriti.

mercoledì 23 marzo 2011

Un biglietto della lotteria. In India

Che Aloysius, il nostro referente per i progetti nel Sud dell'India, fosse un genio di inventiva lo sapevamo da tempo. Ecco l'ultima trovata. Grande Lotteria per la festa di fine anno scolastico della Scuola Elisabetta Vitale - Devarkulam - India
Estrazione il 24 Aprile 2011 - Costo del biglietto 2,00 Euro
I premi vinti verranno consegnati a Giugno in Italia direttamente da Padre Aloysius.
I premi in palio sono chiaramente indicati sul biglietto. Scritto in Tamil!
Non possiamo fare a meno di aderire all'iniziativa.
Per l'impegno all'acquisto dei biglietti: info@mehala.org

lunedì 14 marzo 2011

La tecnologia è per tutti, nonne analfabete comprese

“ Dove sta scritto che siccome non sai leggere e scrivere non puoi diventare ingegnere, architetto o dentista? Questi sono solo miti che abbiamo nella mente. E al Barefoot college li mandiamo in frantumi.” Lo dice col suo sorriso lucente, ma Bunker Roy non scherza quando, in una delle conferenze più affollate del Festival della Scienza di Genova, che si chiude proprio questo week-end e che potete vedere in streaming sulla WiredTv, spiega cosa significa demistificare la tecnologia. È quello che cerca di fare dal 1972, quando a Tilonia, nello stato indiano del Rajasthan, fondò il Barefoot college, dove gli analfabeti dei villaggi rurali dell’India imparano a costruire impianti fotovoltaici.

Ma l’analfabetismo non pesa come un macigno sullo sviluppo?
"Nient’affatto. A Tilonia noi riportiamo al centro i saperi, le tecniche, le conoscenze maturate nelle comunità rurali nei secoli, che spesso offrono soluzioni semplici e ancora oggi applicabili, come nella gestione delle acque piovane. Lo stiamo facendo in un ampia rete di scuole, e non solo in India".

Ma montare e mantenere in funzione impianti fotovoltaici è un’altra cosa...
"Al Barefoot college istruiamo praticamente solo donne, anzi ora stiamo puntando tutto sulle nonne. La formazione dura sei mesi, per comunicare usiamo la lingua dei segni e l’approccio hands-on. Certo quando arrivano sono impaurite, non sanno che cos’è una resistenza, un circuito stampato, un diodo, ma in sei mesi sono in grado di identificare tutte queste parti e installare e riparare impianti solari. Il vantaggio rispetto a un neolaureato, che esce da cinque anni di educazione tutta teorica, è che loro imparano le cose facendole".

Ma perchè proprio le nonne?
"Perché loro non hanno nessuna smania di andarsene dal villaggio per finire magari in uno slum di Mumbai, come invece fanno gli uomini. Ecco il motivo per cui non rilasciamo un attestato alla fine del corso: se lo facessimo, chi lo riceve se ne andrebbe a cercare un lavoro in città solo perché ha un pezzo di carta in mano. Rimanere a vivere nei villaggi non è un’umiliazione, abbiamo invertito la tendenza, e oggi migliaia di persone decidono di rimanere perché abbiamo dato loro un lavoro, l’autostima e il rispetto degli altri. Le conoscenze tecniche sono importanti per l’autosufficienza delle persone, ma l’educazione scolastica può cambiare le società. Saper leggere e scrivere è importante. Da quando abbiamo portato l’energia elettrica nei villaggi, sono partite le scuole serali per i bambini che durante il giorno devono lavorare con le famiglie nei campi. Ma il metodo del Barefoot college, che punta sulle donne, ha rivoluzionato il rapporto tra i sessi: le donne che tornano dopo un corso sono più sicure di sé.
E quando arriva l’energia elettrica in un villaggio, la natalità si abbassa, così si possono fare più cose la notte invece di concepire bambini a raffica".

E l’era informatica è arrivata a Tilonia?
"Certo, i nostri 30 computer sono alimentati anche quelli, come tutto al Barefoot college, con l’energia solare. I pc sono fondamentali per la gestione e l’uso efficiente dei dati, e le donne analfabete imparano a lavorarci come fanno sui pannelli solari. Così quando tornano nei loro villaggi, in Asia e in Africa, sono pronte a rivoluzionare la vita di migliaia di famiglie".

fonte: Daily Wired

lunedì 7 marzo 2011

Di sorrisi e di classifiche

In questo mondo che ama la competizione pensavamo, anzi eravamo (e lo siamo tuttora) convinti, che non tutto debba per forza essere destinato a finire in una classifica. E che, su certi temi, le medaglie non siano fatte di metalli preziosi, ma di sorrisi, amore, speranza ed emozioni coniugate al futuro. Provate a immaginare di fare una classifica degli amori di una vita o magari, nelle famiglie numerose, di quali sono i figli preferiti. Oppure mettetevi a tavolino a scegliere se premiare con la medaglia d'oro mamma o papà. Impossibile. Almeno: lo è per noi. E lo stesso vale per il lavoro, soprattutto quando questo richiede qualità piuttosto che quantità. L'adozione è uno di quei casi in cui le classifiche - soprattutto se quantitative - ci regalano brividi, e non di piacere. Non certo per vergogna di fronte ai numeri, che parlano di 7 adozioni concluse da Mehala nel 2010 contro le quasi 200 di altri (altro) enti (ente), che hanno (ha) invece scelto di sottolineare con fierezza questo loro (suo) primato (complimenti vivissimi). Ci dispiace per gli autori di questa classifica, buona forse per la catena di montaggio Fiat, ma qui a Mehala andiamo fieri delle 7 adozioni concluse lo scorso anno. E non perché sono tante o sono poche, ma perché hanno tutte una storia, un percorso, un sogno realizzato; perché sono viaggi sudati, conquistati con l'amore e la fatica e sono viaggi che abbiamo condiviso assieme alle "nostre" famiglie. Qui abbiamo un sogno: non arrivare mai, un giorno, a esultare per un traguardo diverso dal sorriso di un bimbo.

mercoledì 2 marzo 2011

Il buio oltre la siepe

Yara Gambirasio è una bambina di 13 anni alla quale è stata negata la possibilità di affrontare quel tumultuoso periodo della vita chiamato “adolescenza”, che, spalancando la porta sul mondo adulto, da l’avvio ad un intenso, articolato e complesso lavoro di costruzione di se da parte di coloro che, fino a ieri, erano bambini e improvvisamente non lo sono più. E il dolore dei genitori di Yara non può non coinvolgere in modo estremamente empatico tutti noi che abbiamo figli e nipoti e sappiamo quale ardua battaglia si compie quotidianamente tra l’istinto alla totale protezione dei nostri cuccioli e la razionale consapevolezza che, per favorire la loro crescita e la loro autonomia, dobbiamo lasciarli andare. Quante volte la mamma di Yara si porrà la domanda : “e se non l’avessi mandata da sola a restituire alle compagne quel registratore?”
Quante volte desidererà di poter caricare all’indietro l’orologio del tempo e tornare a tre mesi fa per ridisegnare quella giornata in cui la figlia è uscita di casa per non tornarvi mai più?
E quante volte anche noi, insieme a lei, saremo tentati di rinchiudere i nostri figli nella nicchia protetta di una casa nella quale pensiamo che il male non possa mai entrare; di accompagnarli per sempre, tenendoli per mano e scrutando con occhi vigili i pericoli che li circondano; di vivere al loro posto per garantire loro la totale immunità da qualunque forma di sofferenza?
La drammatica vicenda di Yara ci offre, nella sua tragicità, la possibilità di spunti di riflessione sul nostro ruolo al fianco dei figli e dei nipoti adolescenti. Un ruolo che non deve mai venir meno in termini di presenza, dialogo, riferimento…ma che richiede la nostra capacità di non “tarpare le ali”, “ negare la libertà”, “ sostituirsi a loro”, anche se in buona fede, anche se per proteggere. La paura di vivere non può essere il deterrente che allontana dai rischi che tutti noi corriamo e dalle vicende dolorose che tutti noi dobbiamo affrontare.
La storia di Yara, raccontata ai nostri figli e nipoti li deve aiutare a divenire consapevoli , probabilmente più prudenti, attenti, capaci di gestire le loro relazioni e i loro rapporti interpersonali.
Non deve insegnare loro la paura, la diffidenza nei confronti dell’altro da sé, l’ansia nell’affrontare le responsabilità della crescita…..Nella società in cui vivono e vivranno ci sono, è vero, gli orchi dai quali è giusto sappiano difendersi, ma c’è anche l’amore, la solidarietà, l’amicizia, la condivisione e la gioia . Se non insegnassimo loro tutto questo….la vita sarebbe ben poca cosa.
Olivia

martedì 1 marzo 2011

Il lungo sentiero


Nairobi, 28 Febbraio 2011
Ciao a tutti, oggi è una bellissima giornata: dopo più di sette mesi finalmente siamo arrivati quasi alla fine! abbiamo il nostro documento finale di adozione...


Ad Alberto e Valentina e il loro piccolo A., i primi ad aver terminato il lungo sentiero dell'adozione in Kenya, va il nostro più accogliente abbraccio.

lunedì 14 febbraio 2011

Imparare a giocare. Non solo a fare ludoterapia.


E’ morto qualche giorno fa Giovanni Bollea, il papà della neuropsichiatria infantile. Aveva 98 e dagli anni 50 instancabilmente si era occupato della connessione tra il potenziale innato del bambino e l’ambiente sociale e familiare nel quale questi è inserito.
Era un uomo essenziale, con una visione dell’infanzia molto diversa da quella con la quale ci confrontiamo quotidianamente.
Aveva un ricordo forte della propria famiglia, dell’impornta etica che proprio dalla famiglia aveva ricevuto e dichiarava con grande serenità che la sua morale il suo desiderio di giustizia e di darsi agli altri derivava dalle parole del padre che, quando Giovanni aveva otto anni, lo aveva condotto a vedere la casa del Lavoro di Torino, bruciata dai fascisti e gli aveva detto: “ Ricorda, Giovanni, ricorda sempre.”
Si è occupato di asili nido ed ha sempre auspicato una scuola a misura di bambino nella quale si sviluppasse un’alleanza tra genitori consapevoli del loro ruolo e della loro responsabilità e insegnanti che intendessero la scuola come luogo di valori di merito e di solidarietà. Ha sostenuto battaglie per la partecipazione dei giovani alla vita pubblica, portando a 16 anni il voto alle elezioni amministrative.
Ha colto il disorientamento dei genitori di oggi timorosi di intromettersi nella vita dei figli in nome della libertà e dell’indipendenza, ed ha sempre sostenuto di “dare meno” ai figli in termini di consumismo. Così come ha preso le distanze dai giochi educativi, suggerendo ai genitori di incoraggiare i bambini a giocare utilizzando la fantasia ….era solito dire che i giochi più belli passavano attraverso la fantasia della madre e le mani del padre…per cui bastavano due pezzi di legno per giocare con il proprio figlio.
Per lui educare significava andare verso i bambini, ascoltarli, sentirli, concedere loro tempo per bighellonare, vivere insieme con gioia e senza timore di sbagliare perché era certo che “ i figli perdonano sempre quando si sentono ascoltati”.
Consigliamo la lettura di uno dei suoi testi. “ Le madri non sbagliano mai”, per conoscere il suo pensiero e riconoscerne la valenza educativa.

mercoledì 2 febbraio 2011

Dove dormono i bambini


Questo bambino di nove anni frequenta una scuola per ex-bambini soldato in Costa d'Avorio, nell'Africa occidentale. Il suo nome deve restare segreto per proteggere la sua identità: se questa fosse rivelata, la sua vita sarebbe in pericolo. Migliaia di bambini, molti dei quali orfani, sono stati reclutati per combattere la violenta guerra civile, convinti ad arruolarsi in cambio di promesse di denaro, cibo e vestiario e poi sparpagliati in giro per il paese durante in conflitto per far perdere loro i legami con il villaggio natale. Sono diventati degli sfollati. Questo bambino è orfano e ha tre fratelli. Adesso vive in un tugurio di cemento con altri alunni della scuola. Il suo piatto preferito è riso con pomodoro, carne e pesce mescolati insieme. Gli piace il calcio e da grande vorrebbe diventare un insegnante

"Dove dormono i bambini" è l'ultimo progetto editoriale di Fabrica, il laboratorio creativo del Gruppo Benetton ed è pubblicato in Italia da Contrasto. Gli scatti sono di James Mollison, fotografo di fama internazionale che si è formato a Fabrica, ha girato il pianeta per fotografare i luoghi dove dormono i bambini. Un modo per entrare con delicatezza nella loro quotidianità e scoprire come i bambini siano per certi aspetti così vicini tra di loro, anche se vivono lontani, e viceversa. Il risultato di questo viaggio attorno al globo è un libro, che parla dei bambini di oggi per rivolgersi agli adulti di domani e incitarli, avvicinandoli alle storie di loro coetanei, a combattere le disparità sociali.
Fonte: La Repubblica.it

giovedì 13 gennaio 2011

Gli Orfani di Carta


Il Nepal a partire dal 5 gennaio 2011 ha sospeso le adozioni dei minori trovati per strada.
Una presa di posizione importante, volta a limitare il traffico illegale di minori.
Secondo stime attendibili a Kathmandu attualmente ci sono circa 2.000 “bambini di strada” costretti a lavorare per poche rupie come camerieri o lavapiatti nei ristoranti e nei bhatti (tea shop). Molti sono costretti a portare in giro tazze di tè, a lavorare in cantieri spostando mattoni e cemento, oppure a lavorare come parcheggiatori. Tutti con salari insufficienti per pagarsi una stanza e quindi costretti a vivere sotto le pagode dei templi o negli androni dei negozi. Qui si riuniscono con le bande dei mendicanti, dei raccoglitori di metallo e plastica che non trovano un lavoro e sopravvivono. Quando serve vanno a mangiare, più raramente a dormire, nelle centinaia di istituti che dovrebbero ospitarli.
Nell’ultimo anno si era creato un nuovo e redditizio traffico illegale: la polizia portava i bambini di strada negli orfanotrofi e da lì erano poi pronti per essere adottati in occidente. Una situazione grave che ha portato il governo nepalese ad intervenire vietando l’adozione internazionale per i minori in questa condizione.
Molti bambini di strada hanno infatti una famiglia (spesso disgregata dalla migrazione) e giungono a Kathmandu dai villaggi in cerca di qualche scampolo di fortuna. Magari i genitori li cercano, come in molti casi è emerso.
L’impegno del governo nepalese, con l’introduzione di questa nuova normativa in materia di adozione internazionale, ha come obiettivo evitare il ripetersi di casi in cui minori sono stati inviati all’estero senza una reale verifica della loro situazione.