giovedì 30 maggio 2013

Racconto di una figlia adottiva
di Eun Yung

Ci sono vari aspetti da considerare nell'essere adottati e provenire da un altro paese. Quello che nel quotidiano mi pesa di più è di appartenere ad un 'etnia diversa. Avere lineamenti diversi in qualsiasi modo ti discrimina.
Fin da bambina le mie caratteristiche somatiche sono state oggetto di scherno e, crescendo, le cose non sono migliorate.
Essere diversi vuole dire essere squadrati ovunque tu vada, essere guardati con diffidenza dai commercianti che temono che lo straniero sia per forza ladro, fermata per strada da ragazzi che ti scherniscono, sentirsi dire che sei venuto in Italia per arricchirti.
Rispetto all'adozione, non ho mai avuto problemi. Fin da piccola, ho sempre saputo di essere stata adottata e non per questo ho sentito meno l'amore dei miei genitori. E' crescendo che le domande iniziano a farsi strada... I tuoi genitori non possono raccontarti della tua nascita, né puoi cercare rassomiglianze con i parenti. La nascita solitamente in Italia viene accolta con gioia e festeggiamenti, la tua forse è stata vissuta come un lutto. Non sai niente
dei primi mesi o anni di vita, è come se ti mancassero per sempre certi tasselli.
Comunque non mi sento una figlia o una sorella diversa,, anche se dentro di me c'è sempre una domanda lacerante a cui purtroppo non avrò mai risposta: chi erano i miei genitori? Perchè hanno deciso di abbandonarmi? Sapere questo alleggerirebbe l'angoscia di alcuni (rari) momenti.

venerdì 24 maggio 2013


                       LA “VERA MAMMA”

Come nasce un bambino? Può nascere per caso, per sbaglio. E allora, nella nostra società, tante volte decidi di tenerlo, lo sopporti, forse scopri che è bello diventare mamma.
Altre volte un bambino lo cerchi, lo desideri, lo senti crescere dentro il tuo cuore o dentro la tua pancia. Ti senti subito mamma, ancora prima che ti compaia davanti,con tutta la sua infanzia da percorrere. Negli occhi lo stesso sguardo interrogativo. "Ma tu chi sei?"

"Sono la tua vera mamma, quella che crescerà insieme a te, quella che ti aiuterà a diventare grande, o forse ti farà tornare piccolo, per poi essere davvero grande, quella che  ti restituirà tutti i baci che in tanti mesi o in tanti anni non hai potuto avere, quella che ti accompagnerà a scuola, che si sentirà dire "suo figlio può fare di più" oppure "beh, visto il suo passato, poverino", e comunque si sentirà in colpa lei, perchè la colpa è sempre delle mamme.
Magari un giorno tu le dirai che poteva lasciarti dov'eri, che poteva fare a meno di metterti al mondo. Sì, perchè è difficile crescere, magari portare gli occhiali, o avere la pelle scura, e i compagni di scuola ti prendono in giro. Ma la mamma c'è sempre, ti difende, le viene da piangere, si chiede dove ha sbagliato, ma ha una certezza, quella di essere la tua "vera mamma".

Elena Pozzi

lunedì 20 maggio 2013


MARIO S’E’ FERITO MA NON A UNA GAMBA

Non amo il calcio e non sono mai stato di quelli che venivano scelti per primi, nel far le squadre, sugli improvvisati  e polverosi campetti di calcio che ho frequentato durante il periodo delle scuole elementari. Mio figlio, ovviamente,  è una  sorta di invasato. Letteralmente stregato da questo gioco. Non so quanto portato, non ho le competenze ne la voglia per esprimere una valutazione. Dal mattino si parte con la scelta della palla adatta, dell’abbigliamento più adeguato alle fantasticate sfide. Mi ha confidato un sogno: vedere il suo piede crescere fino al numero 28 così da poter acquistare le scarpe di “cancio”. Marca Decathlon. Le migliori, gli dico sempre.
Mio figlio ha un idolo. Si chiama Mario Balotelli, è tutto marrone ed è un campione vero.
 Ho ancora qualche resistenza nel monopolizzare le serate davanti a una partita di calcio, e ancora di più nel proporgli di andare allo stadio. Ma alle sue insistenze cedo mostrando dei video di Mario Balotelli su YouTube.
Confesso. Mario Balotelli ha stregato anche me. In ogni suo gesto, atteggiamento, o modo di porsi c’è la sua rivincita, accecata e irrazionale, che solo chi è stato scottato nell’affetto potrà capire.
Mario è stato posto in affidamento presso una famiglia della provincia di Brescia quando aveva meno di due anni. La prima ferita di Mario.
A Brescia Mario è cresciuto in una famiglia che lo ha fatto sentire figlio, ma per l’anagrafe e per il Tribunale Mario era ancora cittadino straniero. La seconda ferita di Mario.
Mario a calcio gioca bene e se ne accorgono presto. Inizia giovanissimo e i successi non mancano tanto da poter pensare di giocare nella Nazionale. A Mario viene proposto di giocare nella nazionale Ghanese ma in quella Italiana nemmeno per sogno. Mario ha origini Ghanesi, ma in Ghana non c’è mai stato.  La terza ferita di Mario.
L’affidamento di Mario si trascina per sedici lunghi anni, finalmente giunge alla maggiore età. Ed è a lui, da un giorno all’altro diventato uomo, che si chiede come si vuol chiamare di cognome. Di chi vuole diventare ufficialmente figlio. La quarta ferita di Mario.
La scelta di Mario è determinata ma non scontata. Molte le situazioni di affidi “sbagliati”, che si ostinano a chiamare sine die, in cui i ragazzi, a diciotto anni, posti di fronte a questa scelta, non sanno più cosa vogliono, a chi appartengono. Il senso di colpa legato a questa scelta, quale che sia, è lacerante.
Mario diventa Mario Balotelli. Il Comune, con cerimonia annessa, concede la cittadinanza italiana, a lui, dopo diciotto anni di permanenza  costante in Italia, con una famiglia che di cognome fa Balotelli! La quinta ferita di Mario.
Se il sogno di ogni bambino senza una famiglia è quello di trovarne una, amorevole e capace, il sogno di ogni calciatore è quello di poter giocare in un grande club. E l’Inter, mi risulta, è uno di questi.
Mario incontra l’Inter.
Sa di essere amato e per questo deve mettere alla prova.
Qualche giorno fa Mario, al termine di una partita importante, si è tolto la maglia della squadra che l’ha voluto e l’ha buttata a terra. In segno di spregio. Lo stesso giorno, un altro diciottenne, al termine di una discussione accesa in casa, ha detto alla madre adottiva “Tu non sei la mia vera mamma”. In segno di spregio. La sesta ferita di Mario.

Marco Porta
  

mercoledì 15 maggio 2013


Di ritorno dall'India

di Elena Pozzi

Da giorni mi sto proponendo di fare una relazione dettagliata del mio viaggio in India, ma ogni volta che mi siedo davanti al computer non riesco a essere lucida, perdo la cognizione del tempo, mi vengono in mente solo flash, emozioni, sensazioni .
Sono stata diverse volte in India, come turista, come operatore, come mamma adottiva, in occasioni istituzionali a rappresentanza di Mehala, ma questa volta è stato diverso, tutto troppo concentrato, tutto troppo intenso, tutto troppo triste.
“Incredible India” è lo slogan dell'Ente per il Turismo Indiano e rende perfettamente l'idea di una realtà piena di contrasti, in continua evoluzione e al tempo stesso arretrata , una realtà dove tecnologia e rituali sciamanici convivono, dove la gente ti sorride ma non capisci mai quello che pensa, dove ricchi e intoccabili si  ignorano a vicenda, dove le donne non contano niente ma se appena hanno un minimo ruolo alzano la cresta, dove gli occhi dei bambini sono così profondi che ti ci perdi dentro.
Riservo ai consiglieri una relazione dettagliata con la denominazione e il luogo degli istituti visitati, riservo ai genitori in attesa  il resoconto dei gesti, dei sorrisi, degli sguardi e delle parole dei loro bambini. In questo momento, senza alcuna pretesa di rispettare la scansione temporale del mio viaggio, ne di fornire dettagli tecnici, riesco solo a lasciarmi trasportare dalle emozioni nella speranza di riuscire a trasmetterle, almeno in parte, a chi mi legge.
Il taxi mi porta nel primo istituto,  mi scarica davanti e si dilegua. Non ho mai capito dove finiscano questi autisti, so solo che si materializzano con puntualità teutonica all'ora stabilita, non li ho mai visti mangiare né dormire. L'accoglienza è come sempre calorosa, sono invitata a pranzo e sogghignando mi forniscono di posate. Rigorosamente scalza  faccio quindi il giro dell'istituto, i bambini sono incuriositi, qualcuno piange, i più grandi sorridono. Sotto lo sguardo benevolo di un'educatrice alcuni bambini si preparano del latte in polvere condito con formiche. I bambini e i ragazzi disabili improvvisano un canto e una danza in mio onore. Sono i bambini senza futuro, quelli che non saranno mai adottati. 
L'addio all'istituto è triste, come sempre, e come sempre il giorno successivo c'è il desiderio di tornare. Ma mi aspetta un'altra realtà, e così via per i nove giorni che seguiranno.
Faccio il pieno di aria condizionata, in aereo e in auto, e questo mi aiuta a sopportare il caldo, ma devo dire che i 47 gradi all'ombra sono l'ultimo mio pensiero. Quando le emozioni sono così forti il fisico non ha più importanza, sei in un bagno di sudore, cammini per forza di inerzia, ma hai fretta di non perdere un solo istante, un solo particolare, un solo sguardo.
Ti offrono un bicchiere d'acqua, che immediatamente ti viene tolto per essere sostituito da acqua minerale, ma va bene tutto, ti dimentichi di ogni precauzione, le priorità sono altre.
E' d'obbligo intrattenersi in ufficio con il responsabile dell'istituto. Il nostro referente aveva preannunciato il mio arrivo e devo dire che l'accoglienza è stata molto cordiale. Un po' più sussiegose le signore, soprattutto se ricoprono un ruolo istituzionale, decisamente più cordiali gli uomini. Io però ho fretta, in primo luogo di incontrare i ”nostri“ bambini, quelli che a breve abbracceranno finalmente la loro mamma e il loro papà, e poi voglio vedere come stanno tutti i bambini, come funzionano gli istituti, come potremmo essere d'aiuto.
Gli istituti sono diversi, come ubicazione, come condizioni e come dimensioni. Vedo bambini davanti al televisore, bambini pigiati in un'aula minuscola dove una maestra arcigna declama ad alta voce, in tono imperioso e allo stesso tempo disperato, gettando secchiate d'acqua sul pavimento per sopravvivere al caldo, bambini che giocano col  lego (pochi!), altri sdraiati per terra che fissano il soffitto, altri che, vicino a un tempietto induista, meditano a occhi chiusi, spiandomi e ridacchiando.
I “nostri” bambini mi vengono presentati vestiti di tutto punto, alcuni con le scarpe, i più grandi sull'attenti come soldatini, i più piccoli, non ancora in grado di recitare una parte, più spontanei e a volte scocciati della nostra intrusione.
Alcuni bambini, mi hanno detto, sarebbero stati adottati a breve negli Stati Uniti o in altri paesi europei. Poi ci sono gli altri bambini, i bambini con bisogni speciali, che richiedono una famiglia speciale E qui è stato un susseguirsi di rabbia, di commozione e anche di vergogna. Il loro stato di salute mi viene presentato nei minimi dettagli, nella speranza che qualche famiglia sia disposta ad accoglierli. Mi sembra di offendere la loro dignità, non voglio sapere, faccio fatica a guardarli negli occhi, ad accarezzare i capelli rasati a zero per motivi di igiene, a osservarli camminare malfermi o prendere a testate le sbarre del lettino.
I  lecca-lecca vanno a ruba, e non diciamo che i bambini sono tutti uguali; proviamo ad andare in una prima media in Italia a offrire lecca-lecca!
Belli i pennarelli, peccato che manca la carta.

Grazie bambini per quello che mi avete dato, mi mancherete! Grazie a tutto il personale degli istituti che, in condizioni per noi inaccettabili, è capace di una carezza e di un sorriso.

10 luglio 2009

martedì 14 maggio 2013


L’INCONTRO CON NOSTRO FIGLIO

Enzo ed Enza hanno adottato il loro figlio Animesh attraverso Mehala. Sono diventati una famiglia nel novembre 2009. Questo è il diario del loro primo incontro.

Questo è il giorno che,  se anche campassi cent’anni, non dimenticherò mai!
L’incontro con nostro figlio è stata la cosa più incredibile che potesse avvenire.
La giornata era cominciata come se nulla fosse. Ho dormito quasi regolarmente, ed il “quasi” è semplicemente per motivi di fuso orario, non ancora del tutto assimilato.
Verso le nove, durante la colazione, non nego di aver provato un po’ di fastidio per il fatto di non essere in uno stato di adrenalina ai massimi livelli, ma al contrario quasi in uno stato di apatia mista a sonnolenza. Le  cose cominciano a cambiare  mano a mano che ci avviciniamo all’istituto. I battiti aumentano e con essi tutti i miei timori.
Sono circa le 10,30 quando ci aprono le poste dell’istituto. L’emozione sale, l’edificio corrisponde a ciò che avevamo visto nel filmato: vecchio ma ben curato.
Veniamo accolti da un’assistente molto cordiale. Ci porta al secondo piano, in una stanza molto grande che viene chiamata “family room”, dove avvengono gli incontri tra i genitori e i propri bambini.
Siamo scalzi. Una giusta forma di rispetto per quel luogo dove tutti sono a piedi nudi.
Dopo circa 10 minuti il referente indiano ci chiama fuori dalla stanza ed in quel momento si ferma il tempo: appare nostro figlio con due mazzolini di fiori, uno per la mamma e uno per me, mi avvicino e mi chiede: “How are you?”. Mi chino, prendo i fiori e lo bacio…Rimango per circa 15 secondi in stato catatonico, ma non piango ed è già un buon segno!
Gli hanno messo, come si suol dire, il vestito della festa: maglietta gialla a maniche lunghe, un paio di pantaloni blu, calzini e scarpe da ginnastica di due numeri più piccole. Infatti ci rendiamo conto che ha una strana camminata, quasi da ubriaco! Più tardi, per fortuna gli fanno togliere le scarpe e gli danno un paio di ciabattine di gomma.
Sorride e ci guarda un po’ intimidito. E’ imbarazzato dai nostri abbracci, non sa come comportarsi…
Prendiamo coraggio e gli chiediamo di farci vedere la sua camera e lui, con piglio sicuro, ci prende e ci guida in una grande stanza dove ci sono quattro lettini. Nel frattempo si avvicinano altri bambini incuriositi da questi due visi pallidi ed Enza viene letteralmente rapita da una ragazza che provvede a decorarle mani e piedi con l’henné. Ci viene spiegato che i piedi vengono decorati alle donne che diventano madri come buon augurio.
Nostro figlio si dimostra subito come un bambino sveglio e furbo e nel suo ambiente è un vero capetto, capace di mettere in riga tutti i suoi amici per la distribuzione delle caramelle che abbiamo portato.
La sua maestra ci fa accomodare nella classe, dove sono seduti tanti bambini, ci mostra il banco di nostro figlio e lo invita ad una dimostrazione delle sue facoltà matematiche. Come un bravo soldatino comincia a contare fino a 100 in inglese e poi recita una filastrocca con tutte le lettere dell’alfabeto…in quel momento abbiamo provato una grande tenerezza, capiamo il lavoro che viene fatto ogni giorno su questi bambini per prepararli all’incontro con i loro futuri genitori.
Dopo il pranzo “speciale” preparato appositamente per noi,  passiamo alla distribuzione dei giocattoli. E’ un vero scompiglio, per mezz’ora regna il caos più completo! Nell’enfasi di voler accaparrarsi qualche gioco o quaderno, mi chiamano addirittura “Mamy”! Pensate, nello stesso giorno sono diventato papà e mamma!
Verso le 15,30 arriva il momento del commiato. E’ il momento peggiore, maestre che piangono, la sua “mamy”che sparisce dalla circolazione per non cedere alle lacrime in pubblico…ci sentiamo dei ladri, e non sappiamo fare altro che ringraziare per tutto quanto hanno fatto in questi anni per il nostro bambino.

Sono circa le 16,15. Ora sono papà per davvero.

venerdì 10 maggio 2013


CREDIAMO CHE NEL NOSTRO CAMMINO DI ADOZIONE CI SIANO STATI TANTI MOMENTI FELICI ED EMOZIONANTI 
QUESTO PER NOI E’ STATO IL PRIMO…E’ STATO QUANDO ABBIAMO SAPUTO CHE, DA QUEL GIORNO, AVRESTE FATTO  PARTE DELLA NOSTRA VITA.

30 LUGLIO 2008

Oggi siamo andati in Associazione. Ci avevano convocati per un aggiornamento
( “ancora un altro” , avevamo pensato; poco tempo prima ci ha chiamato il tribunale per i minori di Milano ) e invece vi abbiamo visto!
Così come se il destino avesse scelto per noi il momento, il luogo e il periodo, VOI (perché siete due, due grandi doni ) siete entrati, in punta dei piedi, nella nostra vita  e nei nostri cuori.
Elena e Lorella ci hanno parlato di voi.
Si sa ben poco , siete due bimbi uno di 8 anni e mezzo e il  fratellino di un anno e 10 mesi. State bene vi chiamate Luv e kush( si scriveranno così ? ) e per voi rajeev, il referente indiano, sta cercando una coppia che vi voglia accogliere ed amare come dei figli.
Ed e’ toccato a noi scegliere, decidere se ci sentivamo pronti a farvi da mamma e papà.
Noi non aspettavamo altro.
In questi mesi abbiamo sempre pensato, con un po’ di rammarico, ad un figlio solo
( perché sapevamo che in India era difficile adottare dei fratelli ).
Ed invece siete arrivati voi ,con i vostri “musi” un po’ perplessi  e l’espressione di chi non capisce cosa gli accade.
Io e vostro padre abbiamo deciso : NOI saremo i vostri genitori, noi e voi saremo una famiglia!
Siete in due , due splendide gemme che risplendono nei nostri cuori e che ci illuminano gli occhi quando vi pensiamo.
Abbiamo deciso di non dire niente a nessuno. Questo è un nostro segreto. La gioia per ora vogliamo assaporarla solo noi,c’è tempo per condividerla .
 In questi giorni sarete solo NOSTRI!

Così vi abbiamo
visti la prima volta e così vi penseremo anche quando adulti avrete altri tratti e un’altra fisionomia, ma per noi resterete i nostri grandi regali ricevuti ,non a Natele, ma in una calda giornata d’estate.


Sabrina e Roberto





venerdì 3 maggio 2013


BAMBINI GRANDI

Quando un bambino si può considerare “grande”? Perché la maggior parte dei genitori adottivi si dice disponibile ad accogliere un bambino entro la famosa “età scolare”? E quelli che questa età l’hanno già superata si possono definire grandi? Come al solito, tutto è relativo; per alcune coppie è già grande un bambino di tre anni, per altre uno di otto può apparire ancora piccolino.
È inevitabile lasciarsi influenzare dall’età anagrafica dei propri bimbi, facendo calcoli e confronti con i coetanei, cercando similitudini e differenze. Nella realtà un bimbo di dodici anni cresciuto in un istituto appare fisicamente molto simile ad un bimbo nato e cresciuto nella propria famiglia di circa sette/otto anni. Il motivo di questo divario può essere attribuito alla trascuratezza nella quale questi bimbi spesso vivono, alla denutrizione, alla poca attività fisica che fanno, ma anche, e soprattutto, alla mancanza di una mamma e di un papà, figure indispensabili per accompagnare il bambino nel complicato compito di crescere e diventare grande.
È stato dimostrato come, nei mesi successivi all’arrivo in famiglia, il bambino  cresca e si sviluppi velocemente. Questa crescita avviene sia a livello mentale, grazie ai numerosi nuovi stimoli ed esperienze che il bambino fa o alla necessità di imparare una nuova lingua, ma anche a livello fisico, come a voler dimostrare che fino a quel momento avesse semplicemente aspettato a crescere e svilupparsi per poterlo fare all’interno della sua famiglia, sostenuto dai suoi genitori.
Spesso si dice che i bimbi che arrivano in famiglia tramite l’adozione sono bambini che hanno più di un’età. Questi bambini hanno infatti, oltre ad un’età anagrafica, spesso nemmeno certa, molte altre età che si sentono o che hanno voglia di avere in quel momento (a volte meno di un anno, quando chiedono a mamma e papà di tenerli in braccio e cullarli come si fa con un neonato, altre volte molti di più, quando vogliono essere indipendenti e rifarsi da soli il letto o pulire la propria camera).
Ma perché allora la maggior parte dei genitori teme che il proprio figlio diventi grande troppo in fretta?
Credo che tutti i genitori nel profondo abbiano desiderato almeno una volta di poter fermare il tempo per far sì che il proprio bimbo rimanga piccolino il più possibile, ma i figli hanno anche bisogno di crescere, e hanno bisogno di genitori che siano pronti a farli crescere, lasciando fare alla natura il suo corso.
Un dato di fatto da considerare è che la realtà dell’adozione internazionale è molto variata negli ultimi anni; vi sono infatti numerosi fattori che determinano un progressivo cambiamento delle caratteristiche dei bambini adottabili.
In particolare, negli ultimi anni, si è registrato un graduale aumento dell’età media dei bambini al
momento dell’adozione, passata da 5,5 anni del 2008 a 6,1 anni nel 2011 (dati CAI). Più precisamente, oltre un terzo dei bambini adottati nel 2011 (36,1%) ha un’età compresa fra 1 e 4 anni, il 45,2% fra 5 e 9 anni, il 13,3% pari o superiore a 10 anni, mentre solo il 5,4% è sotto l’anno.
Questo incremento di età è da attribuirsi principalmente ad un progressivo diffondersi, nei Paesi di origine, della pratica dell’adozione nazionale che, ovviamente, privilegia i minori piccoli e privi di problematiche particolari, destinando all’adozione internazionale coloro che non trovano una famiglia disponibile nel loro Paese.
Ma cosa temono di più i genitori adottivi che sperano di ritardare e rimandare il più possibile la crescita del proprio bimbo? Sicuramente un tema tanto importante quanto impegnativo è il racconto della storia, i ricordi e i racconti legati alle origini: il bambino più è grande, più possiede maggiori capacità per esprimersi e per raccontare ciò che ha vissuto e che ricorda; è infatti maggiormente consapevole di quanto gli è accaduto prima e dopo l’adozione. È indispensabile che i genitori adottivi siano più che pronti e attrezzati nell’accogliere e gestire il bagaglio più voluminoso ed esplicito del proprio figlio.
Altro aspetto importante è la costruzione del legame di attaccamento che i genitori sono stati in grado di creare con i loro figli; questo legame influenzerà infatti le percezioni che il figlio adolescente avrà di sé e le sue relative sicurezze o insicurezze.
Svariate ricerche hanno dimostrato che, seppure l’aumento dell’età all’adozione è spesso correlato ad una maggiore percentuale di attaccamenti insicuri, i figli adottivi presentano percentuali di attaccamento sicuro di gran lunga superiore ai loro pari istituzionalizzati; questo dato ci fa capire come una modifica dello stile di attaccamento sia possibile anche in età più avanzate.
Un ultimo aspetto che risulta essere correlato all’età è quello relativo all’apprendimento, spesso punto di maggior preoccupazione dei genitori poiché correlato al rendimento scolastico.
È inevitabile come il periodo sempre maggiore trascorso dal bambino in istituto o comunque senza i suoi genitori, prima dell’adozione, agisca su un insieme di fattori, fisici e psicologici che, influenzando il funzionamento complessivo del soggetto relativamente ai processi cognitivi e alle competenze neuro-motorie, avrà delle ricadute sull’apprendimento.
Nonostante queste difficoltà, l’adozione di bambini “grandi” è una realtà che si sta imponendo e s’imporrà sempre di più nell’adozione internazionale.
È importante non sottovalutarne la specificità, con la giusta considerazione e conoscenza dei numerosi punti critici, che, se gestiti con tutta la tranquillità e serenità possibile, permetterà anche ai bambini più grandicelli di poter trovare i propri genitori dall’altra parte del mondo.

Forse, dopotutto, non esistono bambini grandi ma solo bambini con età diverse.

Benedetta Panzeri