lunedì 9 maggio 2011

I bambini che non sognano più

Bengasi - Ibrahim è indaffarato con una scatola di mattoncini Lego, "sto costruendo un mitra", spiega. Hafed gioca a nascondersi sdraiato per terra, "si fa così", suggerisce, "lho imparato in battaglia". Nawara è alle prese con un disegno complicato, "questi sono razzi grad, questa invece è una mitragliatrice". Non più sogni da bambini. Guerra e soltanto guerra. Non importa che sia un gioco, un lavoretto, una poesia, un disegno... La guerra è sempre sullo sfondo. "Ci abbiamo provato in mille modi ma non c'è verso di cambiare argomento", dice Roz, giovane e paziente volontaria di questa non-scuola che si chiama El Mojahed, a est di Bengasi. A dire il vero El Mojahed, costruita dagli italiani durante l'occupazione, sarebbe una scuola elementare vera, se funzionasse. Ma dal 17 febbraio, il giorno in cui partì il motore della rivoluzione, le lezioni sono sospese. "Prima la vittoria poi il resto" è d'accordo Ali Nagaw Bayon, una maestra che dedica le sue mattine ai più piccoli, tre-quattro anni.
Qui oggi nessuno è studente. Le classi di El Mojahed sono piuttosto un parco giochi per bambini fra i 3 e i 14 anni. I pastelli colorati inviati dall'Unicef vanno a ruba, i fogli per disegnare scarseggiano, i giocattoli raccolti dalle famiglie della città passano di mano in mano. Insegnanti disoccupate e ragazze del volontariato locale danno il loro contributo alla rivoluzione prendendosi cura di qualsiasi bambino arrivi. Minimo duecento ogni giorno. "Così almeno non giocano per strada, dove gira un sacco di gente armata" considera Al Nagaw. "Almeno per qualche ora non stanno nelle loro case con la televisione che mostra scene di combattimento". La vita di questi bambini scorrea lenta fino al 17 febbraio. Poi carri armati delle truppe governative sono arrivati in città, per cinque giorni Bengasi è stata un campo di battaglia che nessun bimbo potrà mai dimenticare. Il rumore delle bombe, le mitragliatrici, i razzi, le case in fiamme, i feriti: ciascuno di loro ricorda ogni dettaglio.
Bastano una matita colorata e un pezzo di carta per capire che la memoria corre in automatico su quei ricordo. Così ecco un uomo per terra, nel sangue, i carri armati dei ribelli che avanzano in direzione delle bandiere verdi di Gheddafi. "Siete come ratti" disse il raìs in una delle sue prime apparizioni televisive dopo la rivolta in Cirenaica. Per questo Saad, 12 anni, ha disegnato Gheddafi con la faccia da topo. Musafa, 10 anni, lo disegna con le corna del diavolo.
Tutti, anche i più piccoli, sanno più o meno tracciare il profilo del colonnello, i suoi capelli ricci, il suo cappello. "L'ho imparato da mio fratello maggiore" confessa Hedaia, 10 anni. E dai fratelli maggiori, dalle mamme e dai papà, hanno imparato che il verde è "un colore cattivo" perché la bandiera di Gheddafi è verde, sanno che adesso la "Libiache non è più in prigione", come dice la piccola Doaa, ha i colori rosso, nero e verde, con la mezza luna e la stella in centro.
Rowieda Abdallaw Allkmati è un'insegnante, volontaria della scuola. E' sicura che "questi figli della Libiace la faranno anche se hanno visto cose orribili". Poi prova a chiedere a una bimbetta di disegnare un fiore. Lei lo disegna, lo colora, e lo guarda perplessa mentre lo consegna. Manca qualcosa. Si riprende il foglio e aggiunge il colore rosso. "Sul fiore c'è sangue", dice.
Fonte: Corriere.it